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mercoledì 23 settembre 2009

Articolo apparso sul n° 4 del quindicinale diocesano "Vola"

Siamo nel 597 a. C. e Nabucodonosor, re di Babilonia, fa compiere quella che sarà la prima deportazione del popolo di Israele. Undici anni più tardi, nel 586 a. C., vi sarà una seconda deportazione, più radicale e sanguinosa della precedente. Ovviamente da abile stratega ed ottimo politico, Nabucodonosor fa deportare in Babilonia le forze lavoro, uomini, giovani, classe colta, lasciando in Israele donne, vecchi e bambini, cioè tutti coloro che non potevano essere riciclati subito nel mondo del lavoro, tutti gli improduttivi, i pesi morti. Israele, privato delle sue braccia più valorose, cade in una grande depressione economica e sociale. Passato lo spaesamento delle
prime generazioni coloro che erano rimasti in Israele ricominciano a ricostruire il loro paese, la loro vita, la loro economia, forti anche di tutto ciò che era stato abbandonato dagli esuli. Contemporaneamente coloro che erano stati deportati a Babilonia cominciano a far valere le loro abilità in ogni campo, arrivando ad occupare anche posti importanti nel campo economico, militare e politico, tanto che alcuni esegeti arrivano a dire che poi non si stava tanto male sui fiumi di Babilonia.
Si creano così due popoli: il popolo della terra e il popolo dell’esilio. Due popoli che si allontaneranno sempre più, ognuno geloso delle possibilità che erano state date all’altro, dimenticando che comunque erano entrambi figli di quell’evento comune, l’esodo dall’Egitto ad opera di Dio, che li aveva resi liberi.
La storia, purtroppo, si ripete oggi a L’Aquila.
Il terremoto, nuovo nome di Nabucodonosor, ha costretto alcuni in esilio sulla costa e ha costretto altri alla precarietà delle tendopoli. Ma proprio dalla storia dobbiamo imparare a non ripetere gli stessi errori, guai ora a creare due popoli, aquilani contro aquilani.
Tutti dobbiamo capire che i fiumi di Babilonia su cui siamo stati deportati non sono né la costa né i campi con le tende, i veri fiumi dell’esilio sono quei luoghi in cui non sono più possibili quei rapporti che rendevano umana la nostra vita.
Chi è andato via non ha tradito e chi è rimasto non ne ha approfittato.
È ora di ricominciare a ricostruire la nostra città tenendo presenti le reali esigenze di chi comunque ci viveva senza dimenticare che anche i simboli hanno la loro importanza.
In fondo Israele diventerà di nuovo un solo popolo quando, grazie all’editto di Ciro, tutti, popolo della terra e popolo dell’esilio, riedificheranno a Gerusalemme il Nuovo Tempio.
Perché avere il Tempio vuol dire avere una ipotesi positiva da consegnare alle nuove generazioni,
ossia ai nostri figli.

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