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mercoledì 24 ottobre 2012

Udienza Generale del 17 ottobre su L'anno della fede



Cari fratelli e sorelle,
oggi vorrei introdurre il nuovo ciclo di catechesi, che si sviluppa lungo tutto l’Anno della fede appena iniziato e che interrompe - per questo periodo – il ciclo dedicato alla scuola della preghiera. Con la Lettera apostolica Porta Fidei ho indetto questo Anno speciale, proprio perché la Chiesa rinnovi l’entusiasmo di credere in Gesù Cristo, unico salvatore del mondo, ravvivi la gioia di camminare sulla via che ci ha indicato, e testimoni in modo concreto la forza trasformante della fede.
La ricorrenza dei cinquant’anni dall’apertura del Concilio Vaticano II è un’occasione importante per ritornare a Dio, per approfondire e vivere con maggiore coraggio la propria fede, per rafforzare l’appartenenza alla Chiesa, «maestra di umanità», che, attraverso l’annuncio della Parola, la celebrazione dei Sacramenti e le opere della carità ci guida ad incontrare e conoscere Cristo, vero Dio e vero uomo. Si tratta dell’incontro non con un’idea o con un progetto di vita, ma con una Persona viva che trasforma in profondità noi stessi, rivelandoci la nostra vera identità di figli di Dio. L’incontro con Cristo rinnova i nostri rapporti umani, orientandoli, di giorno in giorno, a maggiore solidarietà e fraternità, nella logica dell’amore. Avere fede nel Signore non è un fatto che interessa solamente la nostra intelligenza, l’area del sapere intellettuale, ma è un cambiamento che coinvolge la vita, tutto noi stessi: sentimento, cuore, intelligenza, volontà, corporeità, emozioni, relazioni umane. Con la fede cambia veramente tutto in noi e per noi, e si rivela con chiarezza il nostro destino futuro, la verità della nostra vocazione dentro la storia, il senso della vita, il gusto di essere pellegrini verso la Patria celeste.
Ma - ci chiediamo - la fede è veramente la forza trasformante nella nostra vita, nella mia vita? Oppure è solo uno degli elementi che fanno parte dell’esistenza, senza essere quello determinante che la coinvolge totalmente? Con le catechesi di quest’Anno della fede vorremmo fare un cammino per rafforzare o ritrovare la gioia della fede, comprendendo che essa non è qualcosa di estraneo, di staccato dalla vita concreta, ma ne è l’anima. La fede in un Dio che è amore, e che si è fatto vicino all’uomo incarnandosi e donando se stesso sulla croce per salvarci e riaprirci le porte del Cielo, indica in modo luminoso che solo nell’amore consiste la pienezza dell’uomo. Oggi è necessario ribadirlo con chiarezza, mentre le trasformazioni culturali in atto mostrano spesso tante forme di barbarie, che passano sotto il segno di «conquiste di civiltà»: la fede afferma che non c’è vera umanità se non nei luoghi, nei gesti, nei tempi e nelle forme in cui l’uomo è animato dall’amore che viene da Dio, si esprime come dono, si manifesta in relazioni ricche di amore, di compassione, di attenzione e di servizio disinteressato verso l’altro. Dove c’è dominio, possesso, sfruttamento, mercificazione dell’altro per il proprio egoismo, dove c’è l’arroganza dell’io chiuso in se stesso, l’uomo viene impoverito, degradato, sfigurato. La fede cristiana, operosa nella carità e forte nella speranza, non limita, ma umanizza la vita, anzi la rende pienamente umana.
La fede è accogliere questo messaggio trasformante nella nostra vita, è accogliere la rivelazione di Dio, che ci fa conoscere chi Egli è, come agisce, quali sono i suoi progetti per noi. Certo, il mistero di Dio resta sempre oltre i nostri concetti e la nostra ragione, i nostri riti e le nostre preghiere. Tuttavia, con la rivelazione è Dio stesso che si autocomunica, si racconta, si rende accessibile. E noi siamo resi capaci di ascoltare la sua Parola e di ricevere la sua verità. Ecco allora la meraviglia della fede: Dio, nel suo amore, crea in noi – attraverso l’opera dello Spirito Santo – le condizioni adeguate perché possiamo riconoscere la sua Parola. Dio stesso, nella sua volontà di manifestarsi, di entrare in contatto con noi, di farsi presente nella nostra storia, ci rende capaci di ascoltarlo e di accoglierlo. San Paolo lo esprime con gioia e riconoscenza così: «Ringraziamo Dio continuamente, perché, avendo ricevuto da noi la parola divina della predicazione, l’avete accolta non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che credete» (1 Ts 2,13).
Dio si è rivelato con parole e opere in tutta una lunga storia di amicizia con l’uomo, che culmina nell’Incarnazione del Figlio di Dio e nel suo Mistero di Morte e Risurrezione. Dio non solo si è rivelato nella storia di un popolo, non solo ha parlato per mezzo dei Profeti, ma ha varcato il suo Cielo per entrare nella terra degli uomini come uomo, perché potessimo incontrarlo e ascoltarlo. E da Gerusalemme l’annuncio del Vangelo della salvezza si è diffuso fino ai confini della terra. La Chiesa, nata dal costato di Cristo, è divenuta portatrice di una nuova solida speranza: Gesù di Nazaret, crocifisso e risorto, salvatore del mondo, che siede alla destra del Padre ed è il giudice dei vivi e dei morti. Questo è il kerigma, l’annuncio centrale e dirompente della fede. Ma sin dagli inizi si pose il problema della «regola della fede», ossia della fedeltà dei credenti alla verità del Vangelo, nella quale restare saldi, alla verità salvifica su Dio e sull’uomo da custodire e trasmettere. San Paolo scrive: «Ricevete la salvezza, se mantenete [il vangelo] in quella forma in cui ve l’ho annunciato. Altrimenti avreste creduto invano» (1 Cor 15,2).
Ma dove troviamo la formula essenziale della fede? Dove troviamo le verità che ci sono state fedelmente trasmesse e che costituiscono la luce per la nostra vita quotidiana? La risposta è semplice: nel Credo, nella Professione di Fede o Simbolo della fede, noi ci riallacciamo all’evento originario della Persona e della Storia di Gesù di Nazaret; si rende concreto quello che l’Apostolo delle genti diceva ai cristiani di Corinto: «Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per  i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno» (1 Cor 15,3).
Anche oggi abbiamo bisogno che il Credo sia meglio conosciuto, compreso e pregato. Soprattutto è importante che il Credo venga, per così dire, «riconosciuto». Conoscere, infatti, potrebbe essere un’operazione soltanto intellettuale, mentre «riconoscere» vuole significare la necessità di scoprire il legame profondo tra le verità che professiamo nel Credo e la nostra esistenza quotidiana, perché queste verità siano veramente e concretamente - come sempre sono state - luce per i passi del nostro vivere, acqua che irrora le arsure del nostro cammino, vita che vince certi deserti della vita contemporanea. Nel Credo si innesta la vita morale del cristiano, che in esso trova il suo fondamento e la sua giustificazione.
Non è un caso che il Beato Giovanni Paolo II abbia voluto che il Catechismo della Chiesa Cattolica, norma sicura per l’insegnamento della fede e fonte certa per una catechesi rinnovata, fosse impostato sul Credo. Si è trattato di confermare e custodire questo nucleo centrale delle verità della fede, rendendolo in un linguaggio più intellegibile agli uomini del nostro tempo, a noi. E’ un dovere della Chiesa trasmettere la fede, comunicare il Vangelo, affinché le verità cristiane siano luce nelle nuove trasformazioni culturali, e i cristiani siano capaci di rendere ragione della speranza che portano (cfr 1 Pt 3,14). Oggi viviamo in una società profondamente mutata anche rispetto ad un recente passato, e in continuo movimento. I processi della secolarizzazione e di una diffusa mentalità nichilista, in cui tutto è relativo, hanno segnato fortemente la mentalità comune. Così, la vita è vissuta spesso con leggerezza, senza ideali chiari e speranze solide, all’interno di legami sociali e familiari liquidi, provvisori. Soprattutto le nuove generazioni non vengono educate alla ricerca della verità e del senso profondo dell’esistenza che superi il contingente, alla stabilità degli affetti, alla fiducia. Al contrario, il relativismo porta a non avere punti fermi,  sospetto e volubilità provocano rotture nei rapporti umani, mentre la vita è vissuta dentro esperimenti che durano poco, senza assunzione di responsabilità. Se l’individualismo e il relativismo sembrano dominare l’animo di molti contemporanei, non si può dire che i credenti restino totalmente immuni da questi pericoli, con cui siamo confrontati nella trasmissione della fede. L’indagine promossa in tutti i continenti per la celebrazione del Sinodo dei Vescovi sulla Nuova Evangelizzazione, ne ha evidenziato alcuni: una fede vissuta in modo passivo e privato, il rifiuto dell’educazione alla fede, la frattura tra vita e fede.
Il cristiano spesso non conosce neppure il nucleo centrale della propria fede cattolica, del Credo, così da lasciare spazio ad un certo sincretismo e relativismo religioso, senza chiarezza sulle verità da credere e sulla singolarità salvifica del cristianesimo. Non è così lontano oggi il rischio di costruire, per così dire, una religione «fai-da-te». Dobbiamo, invece, tornare a Dio, al Dio di Gesù Cristo, dobbiamo riscoprire il messaggio del Vangelo, farlo entrare in modo più profondo nelle nostre coscienze e nella vita quotidiana.
Nelle catechesi di quest’Anno della fede vorrei offrire un aiuto per compiere questo cammino, per riprendere e approfondire le verità centrali della fede su Dio, sull’uomo, sulla Chiesa, su tutta la realtà sociale e cosmica, meditando e riflettendo sulle affermazioni del Credo. E vorrei che risultasse chiaro che questi contenuti o verità della fede (fides quae) si collegano direttamente al nostro vissuto; chiedono una conversione dell’esistenza, che dà vita ad un nuovo modo di credere in Dio (fides qua). Conoscere Dio, incontrarlo, approfondire i tratti del suo volto mette in gioco la nostra vita, perché Egli entra nei dinamismi profondi dell’essere umano.
Possa il cammino che compiremo quest’anno farci crescere tutti nella fede e nell’amore a Cristo, perché impariamo a vivere, nelle scelte e nelle azioni quotidiane, la vita buona e bella del Vangelo. Grazie.

lunedì 24 settembre 2012


Cardinal Martini «Chiesa indietro di 200 anni. Perché non si scuote, perché abbiamo paura?»

intervista a Carlo Maria Martini a cura di Georg Sporschill e Federica Radice Fossati Confalonieri

in “Corriere della Sera” del 1 settembre 2012

Padre Georg Sporschill, il confratello gesuita che lo intervistò in Conversazioni notturne a Gerusalemme, e Federica Radice hanno incontrato Martini l'8 agosto: «Una sorta di testamento spirituale. Il cardinale Martini ha letto e approvato il testo».

Come vede lei la situazione della Chiesa?

«La Chiesa è stanca, nell'Europa del benessere e in America. La nostra cultura è invecchiata, le nostre Chiese sono grandi, le nostre case religiose sono vuote e l'apparato burocratico della Chiesa lievita, i nostri riti e i nostri abiti sono pomposi. Queste cose però esprimono quello che noi siamo oggi? (...) Il benessere pesa. Noi ci troviamo lì come il giovane ricco che triste se ne andò via quando Gesù lo chiamò per farlo diventare suo discepolo. Lo so che non possiamo lasciare tutto con facilità. Quanto meno però potremmo cercare uomini che siano liberi e più vicini al prossimo. Come lo sono stati il vescovo Romero e i martiri gesuiti di El Salvador. Dove sono da noi gli eroi a cui ispirarci? Per nessuna ragione dobbiamo limitarli con i vincoli dell'istituzione».

Chi può aiutare la Chiesa oggi?

«Padre Karl Rahner usava volentieri l'immagine della brace che si nasconde sotto la cenere. Io vedo nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza. Come si può liberare la brace dalla cenere in modo da far rinvigorire la fiamma dell'amore? Per prima cosa dobbiamo ricercare questa brace. Dove sono le singole persone piene di generosità come il buon samaritano? Che hanno fede come il centurione romano? Che sono entusiaste come Giovanni Battista? Che osano il nuovo come Paolo? Che sono fedeli come Maria di Magdala? Io consiglio al Papa e ai vescovi di cercare dodici persone fuori dalle righe per i posti direzionali. Uomini che siano vicini ai più poveri e che siano circondati da giovani e che sperimentino cose nuove. Abbiamo bisogno del confronto con uomini che ardono in modo che lo spirito possa diffondersi ovunque».

Che strumenti consiglia contro la stanchezza della Chiesa?

«Ne consiglio tre molto forti. Il primo è la conversione: la Chiesa deve riconoscere i propri errori e deve percorrere un cammino radicale di cambiamento, cominciando dal Papa e dai vescovi. Gli scandali della pedofilia ci spingono a intraprendere un cammino di conversione. Le domande sulla sessualità e su tutti i temi che coinvolgono il corpo ne sono un esempio. Questi sono importanti per ognuno e a volte forse sono anche troppo importanti. Dobbiamo chiederci se la gente ascolta ancora i consigli della Chiesa in materia sessuale. La Chiesa è ancora in questo campo un'autorità di riferimento o solo una caricatura nei media?

Il secondo la Parola di Dio. Il Concilio Vaticano II ha restituito la Bibbia ai cattolici. (...) Solo chi percepisce nel suo cuore questa Parola può far parte di coloro che aiuteranno il rinnovamento della Chiesa e sapranno rispondere alle domande personali con una giusta scelta. La Parola di Dio è semplice e cerca come compagno un cuore che ascolti (...). Né il clero né il Diritto ecclesiale possono sostituirsi all'interiorità dell'uomo. Tutte le regole esterne, le leggi, i dogmi ci sono dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti.
Per chi sono i sacramenti? Questi sono il terzo strumento di guarigione. I sacramenti non sono uno
strumento per la disciplina, ma un aiuto per gli uomini nei momenti del cammino e nelle debolezze della vita. Portiamo i sacramenti agli uomini che necessitano una nuova forza? Io penso a tutti i divorziati e alle coppie risposate, alle famiglie allargate. Questi hanno bisogno di una protezione speciale. La Chiesa sostiene l'indissolubilità del matrimonio. È una grazia quando un matrimonio e una famiglia riescono (...).

L'atteggiamento che teniamo verso le famiglie allargate determinerà l'avvicinamento alla Chiesa della generazione dei figli. Una donna è stata abbandonata dal marito e trova un nuovo compagno che si occupa di lei e dei suoi tre figli. Il secondo amore riesce. Se questa famiglia viene discriminata, viene tagliata fuori non solo la madre ma anche i suoi figli. Se i genitori si sentono esterni alla Chiesa o non ne sentono il sostegno, la Chiesa perderà la generazione futura. Prima della Comunione noi preghiamo: "Signore non sono degno..." Noi sappiamo di non essere degni (...). L'amore è grazia. L'amore è un dono. La domanda se i divorziati possano fare la Comunione dovrebbe essere capovolta. Come può la Chiesa arrivare in aiuto con la forza dei sacramenti a chi ha situazioni familiari complesse?»

Lei cosa fa personalmente?

«La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. Io sono vecchio e malato e dipendo dall'aiuto degli altri. Le persone buone intorno a me mi fanno sentire l'amore. Questo amore è più forte del sentimento di sfiducia che ogni tanto percepisco nei confronti della Chiesa in Europa. Solo l'amore vince la stanchezza. Dio è Amore. Io ho ancora una domanda per te: che cosa puoi fare tu per la Chiesa?».

giovedì 6 settembre 2012

Cercasi assetati di profezia.



Vent'anni fa morivano padre Balducci e padre Turoldo, due grandi uomini della chiesa del novecento. Ognuno con il proprio carisma, con la propria personalità, uno più nell'ambito politico e della coscienza sociale, l'altro nell'ambito più squisitamente religioso. Mai cortigiani ma servi del vangelo e appassionati della presenza di cristo nel mondo, nelle culture. Eppure nessuno tra gli uomini di chiesa, le istituzioni ecclesiali, le accademie pontificie ha pensato di ricordarli. Forse una innata paura della profezia impedisce il confronto con uomini di confine.
Da questo piccolo blog parrocchiale un omaggio ed un ricordo di questi due grandi sperando che presto la chiesa ritrovi, al di là delle piccole beghe rubricistiche della liturgia, lo spirito della profezia per essere non tanto creduta quanto credibile.
E come gesto di amore si propone una bellissima pagina di padre Turoldo:

"Fratello ateo, nobilmente pensoso,
alla ricerca di un Dio che non so darti,
attraversiamo insieme il deserto.
Di deserto in deserto andiamo oltre
la foresta delle fedi,
liberi e nudi verso
il Nudo Essere
e là
dove la parola muore
abbia fine il nostro cammino".
(David Maria Turoldo, Canti ultimi)

sabato 1 settembre 2012

Un uomo solo



Quando alla fine dei miei studi istituzionali confidai al mio rettore che volevo intraprendere gli studi biblici mi disse: "Sarà uno studio difficile, ma molto più difficile sarà poi il tuo ministero, perché la conoscenza puntuale ed amorosa della Bibbia ti porrà su un livello diverso rispetto a tutti gli altri. Non più alto ne più basso, ma diverso".
In effetti mi rendo conto che è vero. La conoscenza della Bibbia e la sua traduzione nella pastorale ordinaria, spesso porta a decisioni controcorrente rispetto ad un devozionismo post-tridentino, ancora purtroppo imperante, ma solo nel clero perché poi i fedeli, molto più avanti di noi, di fatto hanno abbandonato tridui, novene, tredicine, fioretti ...
Decisioni pastorali che portano sconcerto ad una certa ripetitiva pratica religiosa.
Ecco il card. Martini è l'esempio di questo livello diverso, il suo amore per la Parola di Dio lo ha portato ad un dialogo intraecclesiale ed extraecclesiale. Ha suscitato crisi nei credenti, costringendoli a pensare la loro fede, a fondarla ogni giorno di più; ma ha suscitato crisi anche nei non credenti, obbligandoli a fondare il loro non credere. Bella la sua distinzione non tra credenti e non credenti ma tra pensanti e non pensanti. Profetica in questo tempo di cortigianerie liturgiche, devozionali, teologiche...
"Una chiesa che è indietro di 200 anni" dice Martini nella sua intervista, pubblicata postuma, oggi. Ed è proprio vero. Ma ciò che più preoccupa sono queste spinte centripete verso un'epoca ancora più remota, con nostalgie di forma definitivamente superate e mai veramente cristiane, sovrastrutture, orpelli, titoli, barocchismi, preti rinascimentali e monsignori che rispolverano l'ermellino tutto sempre per la "maggior gloria di Dio" dove il dio di turno spesso altro non è che il loro piccolo io, nuovo vitello d'oro di un certo clericalismo puzzolente di naftalina e tuttavia pieno di tarme resistenti.
Ecco la profezia solitaria ma efficace di padre Martini, come viene ancora chiamato nell'ambiente dei biblisti. Il suo studio lo ha costretto ad un livello diverso, più alto il suo. Ed ecco perché credenti e non credenti gli hanno riconosciuto una autorevolezza ormai sempre più rara dentro i "sacri recinti dell'ovile divino".
Padre Martini ci lascia la sua produzione scientifica e pastorale della quale solo il futuro svelerà tutta la ricchezza e la fantasia.
E ci lascia una fede pensosa, con categorie umane e per questo cristiane: atei, altre religioni, altre confessioni cristiane, celibato dei preti, crisi di vocazioni, mancanza di incisività sociale, opere, dialogo, coppie di fatto, separati, risposati, conviventi, nuove e vecchie famiglie, nuovi e vecchi rapporti tra i sessi, l'amore...
Grazie padre Martini per la tua obbedienza assoluta alla Parola, che è fonte di libertà e possibilità di umanizzare ogni esperienza della vita. Nulla di ciò che è umano è estraneo al cristianesimo.

giovedì 16 agosto 2012

I nuovi santi.

Anzitutto è giusto esprimere tutta la solidarietà a don Gerard per l'increscioso episodio che lo ha visto protagonista involontario nella parrocchia di Barano (AQ).
Ed una riflessione che non vuole essere polemica sterile ma tentativo di capire come il costume religioso ha preso una strada quantomeno strana.
L'episodio di Barano, e quelli meno noti di tante altre feste patronali, devono farci riflettere su come abbiamo ridotto i nostri santi patroni. Spesso sono solo il pretesto per mettere su fiere di un divertimento di-vino, la scusa nobile per giustificare una baldoria divertimentificia (parola forse inesistente ma pertinente) dove imperano il cattivo gusto, la volgarità, la bestemmia.
E allora? Forse sarebbe bene prendere coscienza una buona volta come sant'arrosticino, santa porchetta, santa bistecca, santi strozzapreti, santa pecora alla cottora, san tartufo, santa birra, san porcino, ... hanno oramai sostituito i santi più tradizionali.
Cosa fare? Non lo so.
Intanto caro don Gerard come comunità cristiana ti siamo vicini, e siamo dispiaciuti che la nostra diocesi sia rimasta indifferente (praticamente) a quello che ti è capitato e non abbia messo in moto una veglia di riparazione, come già un anno fa a Bagno per la profanazione delle specie eucaristiche. Si un gesto di riparazione perché un insulto così volgare ad un presbitero è un insulto a Cristo e alla sua Chiesa, fatto da battezzati che nulla hanno capito della loro fede e della loro appartenenza ecclesiale. E se Cristo è presente eminentemente nell'Eucaristia lo è anche nella sua Parola, nei suoi Ministri e nella sua Comunità.

domenica 22 luglio 2012

Anniversario

Nonostante la mia scomparsa dalla scena parrocchiale nei giorni dell'anniversario dell'ordinazione sacerdotale, oggi la comunità ha voluto festeggiare questo evento. Qualcosa avevo scoperto nonostante lo sforzo di secretare l'iniziativa. Una bella concelebrazione insieme al vescovo Giovanni, un pezzo della comunità di Gignano, alcuni amici di san Marco di Preturo e gli amici della comunità di Comunione e Liberazione. Mi tornano alla mente alcune riflessioni di don Primo Mazzolari:
- Quando vedo che l'altare diventa un trampolino... come se l'altare fosse un gradino dal quale, con un salto, si giunge all'...arrembaggio dell'altro..., del secondo... Credete che un fiocco rosso e una mozzetta sulle spalle  valgano di più di una croce d'altare e di una pietra sacra?
- I più cattivi devono essere i più nostri. Cristo ha sete di questi.
- In un libro di un polacco ho letto che, un giorno, un prete chiedeva a un contadino se conoscesse il vangelo; e quello, per risposta disse: "E tu conosci il dolore?".
- Nel sacerdote v,è mancanza di poesia.
- Spesso noi confondiamo la gloria e la glorificazione di Dio con le misere glorie umane. Le riduciamo a un concetto di ostentata vanità, così poco consistente: quasi che Dio, che ha creato i cieli, abbia bisogno del piccolo omaggio della creatura, della povera gloria che gli tributiamo nella piccola parata.

giovedì 14 giugno 2012

Assolto mons. D'Ercole


Mons. D'Ercole assolto per non aver commesso il fatto   versione testuale

la decisione del giudice Gargarella

Il giudice Giuseppe Romano Gargarella ha assolto pochi minuti fa il vescovo ausiliare dell’Aquila Giovanni D’Ercole dall’accusa di rivelazione di segreti inerenti a un procedimento penale. Un’assoluzione con formula piena. Il vescovo D'ercole era stato indagato nell'ambito di un'inchiesta sull'utilizzo dei fondi per il sociale destinati alle zone terremotate.  “Continuerò a lavorare per L'Aquila che oramai considero la mia città e per tutti gli aquilani così come ho sempre fatto anche in questi mesi sicuramente difficili per me”, ha dichiarato mons. D'Ercole all'uscita dal tribunale dell'Aquila.

mercoledì 13 giugno 2012

Corpus Domini


+ Dal Vangelo secondo Marco 14,12-16.22-26

Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?».
Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi».
I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.
Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

È la domenica del Corpus Domini e noi siamo di nuovo condotti nel punto sorgivo della chiesa: il cenacolo. Notiamo subito la preoccupazione da parte dei discepoli: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?», questo ci dice che la celebrazione non si improvvisa. Occorre una preparazione, un cammino, un rapporto nuovo. È necessario che la propria libertà decida di giocarsi in un incontro che permetta d’avere un luogo dove poter celebrare la Pasqua. Non siamo chiamati a celebrare fuori dal mondo, lontani dalle case, al riparo dagli uomini, quasi in una sorta di isola felice fatta solo per noi. No, l’indicazione di Gesù è chiara: andate in città. La città è il luogo dell’eucaristia, la città con la sua indifferenza, con il suo traffico, con i suoi ritmi, ma anche con il suo carico di umanità che chiede un cibo che non perisce, con i suoi problemi che chiedono una possibile soluzione. Contro ogni tentazione di chiusura in luoghi puri e santi, in basiliche e sacrestie, Gesù ci invita ad andare nel luogo degli uomini, la città, e la chiedere una disponibilità, una accoglienza. Un uomo con una brocca d’acqua, una scena feriale che permette la festa. Quell’uomo sono io, ognuno di noi, che porta la sua acqua, qualcosa di insapore, incolore eppure indispensabile. Indispensabile a me per vivere ma indispensabile anche a Gesù che dalla croce grida la sua sete. Eccoci al cuore del mistero eucaristico: la mia sete di Lui e la sua sete di me. Cristo mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo. Tutto questo non si improvvisa. È troppo importante la realtà che si celebra per essere pressappochisti. Nulla è così volgare come un gesto che incarna la Bellezza fatto male, di fretta, non preparato, non pensato nei minimi particolari. Infatti Gesù invita a non fermarsi alla prima stanza ma di andare al piano superiore, una stanza arredata, già pronta. Il piano superiore da dove più facilmente si può guardare al mondo intero, un altare da dove spingere lo sguardo sino ai confini della terra e con lo sguardo anche la Grazia e la Misericordia che vengono dall’Eucaristia. Il piano superiore, nuovo faro che illumina le nostre notturne navigazioni per i marosi della vita. E con don Tonino Bello invochiamo Maria, donna delle altezze, affinché: “Doni l'ebbrezza delle alture, la misura dei tempi lunghi, la logica dei giudizi complessivi. Prestale la tua lungimiranza. Non le permettere di soffocare nei cortili della cronaca. Preservala dalla tristezza di impantanarsi, senza vie d'uscita, negli angusti perimetri del quotidiano. Falle guardare la storia dalle postazioni prospettiche del Regno. Perché, solo se saprà mettere l'occhio nelle feritoie più alte della torre, da dove i panorami si allargano, potrà divenire complice dello Spirito e rinnovare, così, la faccia della terra.”

giovedì 17 maggio 2012

domenica 13 maggio 2012

CORSO DI AEROMODELLISMO

Domenica 3 giugno, alle ore 16,00, presso il centro parrocchiale "Kamael" di Gignano, avrà inizio un corso di aeromodellismo. Il corso avrà durata di 100 ore e si svolgerà nei mesi di giugno, luglio e poi dopo le vacanze. Permetterà a tutti i partecipanti di saper costruire un aereo in grado di volare presso le apposite strutture che ci sono nella nostra zona. Si possono iscrivere tutti coloro che hanno un'età compresa tra i 16 e i 99 anni.
Il corso si inserisce nel grande progetto "La tela del Ragno" e sarà tenuto da personale qualificato ed esperto.
Siete tutti i benvenuti. Per le iscrizioni rivolgersi a don Bruno.

mercoledì 14 marzo 2012

Dal Vangelo secondo Giovanni 2,13-25
"Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà». Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo".
Purtroppo non abbiamo ancora imparato la lezione. Quante volte ci capita di partire da casa per andare verso un luogo dove è possibile sperimentare la presenza di un santo, o quella di Maria. Partiamo con il nostro carico di bisogni, di desideri, di speranze, di futuro e, a volte, carichi anche dei bisogni di chi ci circonda, di chi si affida alla nostra preghiera e poi…, sul più bello, sentiamo distanza e disgusto perché, più che in un santuario, ci ritroviamo in un grande bazar del sacro. Un grande ipermercato dove si trova ogni sorta di amuleto, sotto mentite spoglie. Ma in fondo noi, come i responsabili del Tempio di Gerusalemme, abbiamo la pezza d’appoggio: tutto ciò non è per un basso scopo di lucro, non è commercio, ma è necessario al culto che la persona vuole rendere. E giù candele di ogni grandezza e peso, e rosari per ogni tasca, e souvenir sacri da dare agli amici come segno della divina protezione comprata a buon mercato, magari usufruendo di uno sconto tre per due… e messe semplici e solenni, singole e gregoriane, parate o sparate. Forse oggi Gesù non usa più le cordicelle per fare pulizia perché non ne ha bisogno. Con questi mezzucci ci siamo fatti pulizia da soli, non siamo più credibili, abbiamo dato scandalo. Abbiamo sostituito la fede con la religione, l’accoglienza del Mistero nella persona di Gesù con una nostra idea fatta di sentito dire, di luoghi comuni, di tradizioni umane, troppo umane. Anche oggi continua la presenza di mercanti nel tempio ed anche oggi sono pronti a chiedere conto del loro operato a chi lotta e prega e lavora affinché il tempio torni ad essere anzitutto la casa del Padre, dove il peccatore possa sperimentare l’attesa per il suo ritorno, il prigioniero vedere i suoi piedi liberati dal laccio, il povero e il solo fare l’esperienza di una compagnia attenta, e perché no, anche il passero e la rondine un luogo dove porre il nido. Tra pochi mesi si aprirà l’anno della fede, chissà che finalmente non ci sproni tutti ad un maggiore impegno nella conoscenza del vero Gesù. Di quel Gesù creduto dai discepoli sono dopo aver attraversato lo scandalo della sua morte e aver sperimentato la presenza di lui risorto. Questa è la strada certa della comunione con lui, non la compravendita del sacro ma l’accoglienza di Colui che ci rende santi.

lunedì 27 febbraio 2012

Un numero magico.

Dal Vangelo secondo Marco 1,12-15
In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano.Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Quaranta… un numero che dice la vita. I quaranta giorni di Gesù nel deserto, come i quaranta giorni della presenza del Risorto in mezzo ai suoi. È Questa la grande parentesi che abbraccia tutta la quaresima. Gesù inizia la sua storia condividendo in tutto la condizione umana, non vuole essere estraneo alla tentazione, alla fatica del cammino, al rischio dell’errore di prospettiva. Solo il proseguo della sua storia ci dirà che Lui in questa lotta ne esce vittorioso. Vittorioso perché non ha confidato esclusivamente sulle sue forze, ma ha abitato sempre nella volontà del Padre. Pur nella tentazione il suo cuore ha avuto, nel rapporto col Padre, il suo punto saldo. Marco rende evidente questo permanere di Gesù dentro il rapporto con Dio attraverso la presenza di questi angeli che lo servivano. C’è come “una presenza dentro il vuoto” che ci dice che non è vana fatica lottare contro le tentazioni e il tentatore. Il deserto luogo della prova e dell’amore, Israele nel deserto è chiamato a rendere evidente ciò che più gli sta a cuore, ciò per cui vale la pena camminare, sognare, faticare. Israele è portato nel deserto per essere a tu per tu con se stesso e con il suo Signore. Ed ecco che, nella prima domenica di quaresima, anche noi siamo invitati a guardare in faccia le nostre tentazioni per vincerle grazie alla presenza dello Spirito, cioè della forza di Dio che lotta per noi ed in noi, perché “chi siamo e a che cosa crediamo viene fuori davanti al disagio, nell’ora arrischiata”. Solo dopo aver attraversato questi quaranta giorni di deserto potremo sperimentare i quaranta giorni del Risorto. E dopo questi quaranta giorni di lotta e vittoria accade lo scontro con la violenza del potere: Giovanni è arrestato. Ma allora per cosa si è lasciato tentare Gesù e su cosa ha vinto se poi tutto finisce in morte e sopruso? Agli occhi di Dio “questa non è terra di morti, ma il vivo crepuscolo di un mattino perenne”. Tanto che vi è l’inizio dell’annuncio, il Regno di Dio è vicino. Vicino non come distanza da colmare ma come compagno accanto nel cammino. Il Regno di Dio cioè un luogo ed un tempo nel quale la sovranità dell’amore è evidente, attuale, esperienza. Gesù apre la bocca ed annuncia una positività permanente dentro la realtà perché sa che l’uomo ha “bisogno di avere una voce e un destino”.

sabato 18 febbraio 2012



Grazie a Dio non ho visto Sanremo, se non a piccole dosi qua e là, e spesso durante i tg e altri programmi di intrattenimento pomeridiano. Alcune cose però ho potuto notarle.

Anzitutto quella che viene chiamata "La predica di Celentano". A me Celentano non dispiace ma stavolta ha proprio toppato e non parlo in difesa di Avvenire o Famiglia Cristiana, che hanno tutto il diritto di continuare a pubblicare ciò che ritengono utile, senza che alcuno possa invocarne la chiusura. Togliere voci al dibattito è sempre un brutto segnale per la democrazia di un paese. Attacco Celentano per i contenuti del suo sermone. Ha accusato i preti di non parlare abbastanza del paradiso, come se questo fosse il contenuto unico, o più alto, del cristianesimo. Invito Celentano ad una lettura seria della bibbia e si accorgerà che la parola paradiso è presente solo tre volte in tutta la sacra scrittura e solo una volta questa parola è in bocca a Gesù. Da questo si evince che nemmeno a Gesù importava molto del paradiso, a lui sta più a cuore il regno dei cieli che è cosa molto diversa dal paradiso. Gesù parla e salva l'uomo della strada ed invita a far questo. "Avevo fame e mi avete dato..., avevo sete e mi avete dato..., ero nudo..., forestiero..., carcerato..., malato. Fedeli a Gesù ce ne infischiamo di Celentano al quale avrei voluto chiedere il soccorso del suo aiuto per la costruzione della mia chiesa distrutta dal terremoto e magari, perchè no, di un oratorio dove c'è almeno un "prete per chiaccherar". Ma ho saputo che ha già destinato il suo budget ad altre opere, secondo lui più urgenti o più necessarie.

Altra immagine che mi ha lasciato pensieroso è stato l'ingresso della Belen e dell'altra valletta di cui non ricordo il nome. Un ingresso che non ha lasciato spazio alla fantasia, in primo piano una farfalla inguinale quasi genitale. Ostentata nella discesa dalla scalinata ma poi ripresa morbosamente da una mano che accidentalmente scostava ancora una volta il vestito mentre Papaleo farneticava di donne belle e brutte. Volgare ai limiti del porno. Mi chiedo: quale immagine della donna veicola una simile scelta mandata in prima serata, nel programma di punta destinato alle famiglie, sulla rete ammiraglia del servizio pubblico? Come poi possiamo condannare gli stupri, le violenze, una certa idea del corpo delle donne? Obiezione: ognuno è libero di fare quello che vuole. Bene ma poi non lamentiamoci delle possibili conseguenze della nostra azione libera. Chi mi impedisce di andare in giro a urlare a chiunque incontro "Cornuto"? E forse nel 50% dei casi avrò detto anche la verità ma se torno a casa con un occhio nero non posso prendermela con la violenza che c'è nelle nostre città.

Ed infine... quante parolacce gratuite.

lunedì 13 febbraio 2012

Disobbediente e redento.

Dal Vangelo secondo Marco 1,40-45

In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro». Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.

La liturgia di queste domeniche ci pone di fronte ad un Gesù che continuamente opera miracoli e guarigioni. Il posseduto liberato nella sinagoga, la suocera di Pietro guarita nell’intimità della casa ed ora un lebbroso. Come in un crescendo l’evangelista Marco ci fa capire che non c’è luogo al mondo nel quale siamo messi al sicuro dalla sofferenza ma, contemporaneamente, non c’è luogo al mondo in cui Gesù non possa svolgere la sua azione salvatrice. Il lebbroso al tempo di Gesù era un inavvicinabile, contagioso ma soprattutto peccatore. Dio aveva punito Maria, la sorella di Mosè, con la lebbra proprio per la sua intima ribellione. La lebbra quindi segno esteriore di un interiore rifiuto. Con Gesù abbiamo un Dio che non punisce ma si fa vicino. Addirittura tocca, si contamina, prende per osmosi il peccato di quell’uomo, la sua sofferenza, partecipa della sua esclusione sociale, politica, religiosa pur di liberare quell’uomo. Lui che molte volte aveva guarito e salvato con la sola parola adesso invece guarisce e salva toccando. Un Gesù che si sporca le mani con i bisogni dell’uomo, che non si cela dietro una purità rituale, religiosa, precettistica ma ultimamente disumana. Tendere la mano: una espressione che dovrebbe essere il programma di ogni cristiano, ma forse di ogni uomo. Ce ne siamo accorti in questi giorni di disagi per la neve. Quanto abbiamo desiderato una mano tesa e quanto abbiamo costruito quando siamo riusciti ad uscire dalla nostra isolata lamentela e ci siamo messi insieme a spalare, liberare, aprire varchi. Perché la Parola di Dio non abita le nuvole e non è per l’aldilà, ma con l’Incarnazione abita la terra, trasfigura la realtà, compie miracoli feriali di libertà, comunione e condivisione. Qui vive la profezia cristiana di un mondo redento. Tendere la mano per contaminarsi con il bisogno dell’altro, tendere la mano per condividere nel profondo i sentimenti dell’alto, per sentire in noi le vibrazioni negative di chi ci sta di fronte. Tendere la mano perché è bello vedere l’altro, l’uomo, che, libero e felice, annuncia a tutti una nuova vita, il futuro che diviene di nuovo possibile e un Dio che mi è compagno con cui camminare e non nemico da cui difendermi. Un uomo libero che, seppur redento, continua a disobbedire e infatti annuncia a tutti, proclama, il suo vangelo, la porzione di bella notizia che si è realizzata in lui, per lui e nonostante lui.

martedì 17 gennaio 2012

Scon-volti perché coin-volti



+ Dal Vangelo secondo Giovanni 1,35-42


In quel tempo Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì – che, tradotto, significa maestro –, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio.Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» – che si traduce Cristo – e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro.

Ci sono pagine del vangelo piene di mistero e di bellezza, la liturgia di questa domenica ci porta immediatamente in questa dimensione. Non leggiamo in quale giorno e in quale luogo si svolge l’azione raccontata perché ogni giorno ed ogni luogo possono vedere il passaggio di Gesù, non c’è un tempo predeterminato né un luogo prefissato per incontralo. Una chiesa silenziosa non mi garantisce l’incontro né l’atrio di una grande stazione me lo impedisce. Non c’è più sacro e profano. Miracolo dell’incarnazione: tutto è luogo della Sua presenza. Cosa ci resta da fare? Anzitutto ascoltare, decidersi per l’anti-indifferenza, avere un orecchio ed uno sguardo attenti alle indicazioni della realtà. I discepoli di Giovanni non sono chiusi nelle loro certezze, pur avendo come maestro il più grandi tra i nati d’uomo, non si fanno scudo con la loro visione di Dio, dei loro dogmi ma decidono di dare credito a quella voce che indica il passaggio di un uomo strano e misterioso. Allora non esitano a lasciare il certo per l’incerto, la religione per il cammino. Seguono Gesù in silenzio, discretamente, finché Egli non rivolge loro la domanda che fa venire allo scoperto il loro desiderio: “Che cosa cercate?” È questa la domanda di sempre, è questa la domanda che rende l’uomo veramente tale. Ognuno di noi cerca sempre qualcosa o qualcuno: un amore, un lavoro, un po’ di pace, una casa, un figlio, un padre, un amico, un complice, un buon libro… Siamo mendicanti, sempre. I due discepoli? Cercano il luogo dove abita Gesù. Nulla il vangelo ci dice circa questo luogo. Non sappiamo dove Gesù li abbia condotti quel giorno. Sappiamo solo che per i due, per Giovanni e Andrea, quel giorno non è uno tra i tanti e quel rabbì non è uno dei tanti. Da quel giorno la loro vita non è tanto sconvolta quanto è coinvolta con qualcuno capace di soddisfare il loro desiderio di dimora. “Rabbì dove dimori?” quanto è carica di potenza questa domanda?! Possiamo tradurla con espressioni forse più attuali? Penso di si. Signore qual è il luogo in cui è possibile stare in tua compagnia, sentirti presente? Verso dove possiamo rivolgere il nostro sguardo, spesso perso nel vuoto, per cercare una consistenza? Verso dove camminare affinché i nostri passi non siano orientati al nulla? Dove dimori oggi, Signore? Viviamo una stagione dove è difficile trovare qualcuno che Ti indichi presente, o almeno che indicandoti sia credibile. Spesso i profeti dei nostri giorni indicandoti in realtà indicano se stessi. Ci seducono ma non ci conducono. Viviamo crisi di profezia. Viviamo in quello iato, in quella distanza, che esiste tra la nostra decisione di metterci in cammino ed il tuo voltarti verso di noi. Ti chiediamo Signore di voltarti, di guardarci ed amorevolmente costringerci a riconoscere il nostro desiderio più profondo e più vero. Ed infine ancora una volta sentire dalla tua voce: “Venite e vedrete”. Ed è certo che correremo perché abbiamo sete della tua compagnia.

martedì 10 gennaio 2012

Come il cervo anela alle sorgenti delle acque, così l’anima mia sospira a te, Dio. Ha sete l’anima mia del Dio vivo. Quando verrò e mi presenterò davanti al volto del mio Dio? O fonte di vita, vena d’acqua viva, quando verrò dalla terra deserta senza strade e senz’acque, alle acque della tua dolcezza, per vedere la tua potenza e la tua gloria e saziare con le acque della tua misericordia la mia sete? Ho sete, Signore, sorgente di vita, dissetami. Ho sete del Dio vivo. Quando verrò e starò, Signore, davanti al tuo volto? Vedrò io quel giorno di giocondità e di letizia, giorno che ha fatto il Signore, perché esultiamo e ci rallegriamo in esso? O giorno preclaro che non conosce vespero, giorno che non ha tramonto, nel quale udrò la voce di lode, la voce di esultanza e di magnificenza: << Entra nel gaudio del tuo Signore >>, entra nel gaudio eterno, nella casa del Signore tuo Dio..., entra nel gaudio senza tristezza che contiene l’eterna letizia, dove sarà ogni bene e nessun male, dove sarà tutto ciò che vuoi e nulla di ciò che non vuoi, dove sarà vita piena, dolce e amabile, sempre memorabile; dove non sarà nemico che ti osteggi né alcuna lusinga, ma somma e certa sicurezza, e sicura tranquillità e tranquilla giocondità, e gioconda felicità e felice eternità ed eterna beatitudine, e beata Trinità e unità della Trinità, e divinità dell'unità e della deità beata visione, visione che è il gaudio del mio Signore. O gaudio sommo, gaudio che trascende ogni gaudio, quando entrerò in te per vedere il mio Signore che in te abita?... Aspettiamo il Salvatore, Signore Gesù Cristo, il quale trasformerà il corpo della nostra umiltà e lo configurerà al corpo del suo splendore. Aspettiamo il Signore quando tornerà dalle nozze perché ci introduca in pace alle sue nozze. Vieni, Signore Gesù, non tardare. Vieni, Signore Gesù, a visitarci in pace, vieni, Salvatore nostro, vieni, desiderato da tutte le genti, mostraci la tua faccia e saremo salvi.
Amen.
Sant'Agostino